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Morte di un brigante

Un gruppo di briganti giunge nella città di Tebe per rapinare le case dei cittadini più ricchi. Il primo bersaglio è Crisero, un banchiere che custodiva con grande furbizia le sue ricchezze per eludere le tasse. Quando però i briganti arrivano presso la sua casa, Crisero, ancora sveglio, sente tutto, con passi felpati si avvicina alla porta e conficca un chiodo nella mano del capobanda. Poi si mette a chiamare tutti i vicini, urlando che la sua casa sta andando a fuoco. A quel punto i briganti, spaventati, devono prendere una decisione immediata: o scappare via lasciando il loro capo inchiodato alla porta o escogitare uno stratagemma per portarlo via con loro. Stabiliscono allora di troncargli l’avambraccio perché possa scappare. Lamaco, però, non riuscendo a tenere il passo dei suoi, li supplica di farlo morire: come avrebbe potuto, infatti, sopravvivere alla sua mano, abituata alle prodezze di tante rapine! Sarebbe stato preferibile morire di propria volontà per mano dei compagni. Ma, poiché non riesce a convincere nessuno, afferra con la mano che gli resta la sua spada, la bacia e si trafigge il petto, procurandosi una fine degna del suo grande valore, come sentenziano i compagni1.

Riferimenti interni

Riferimento : M. Biancucci, «La morte» in Bettini M. (a cura di), Il sapere mitico, Torino, 2021, pp. 38-43.

Fonti
  1. Apuleio, Met. 4, 9-12

Bibliografia

J. Prieur, La morte nell’antica Roma, Genova, ECIG, 1991.

Commento

La morte può configurarsi come scelta consapevole presa nel momento in cui le circostanze della vita mettono a repentaglio l’esercizio
di una virtù nella quale ci si è distinti.
Nonostante il sapore caricaturale che caratterizza il racconto, la triste fine del brigante Lamaco ribadisce il valore di una morte degna: se nulla si può contro l’ineluttabilità della fine, è di estrema importanza chiudere la propria esistenza in linea con il comportamento tenuto in vita, e ciò vale tanto per gli eroi di guerra quanto per un malfattore.

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