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Miti

Nascita di Ceculo

A Preneste, non lontano da Roma, vi erano due fratelli chiamati divi. Un giorno la loro sorella, mentre sedeva presso il focolare, fu resa gravida da una scintilla e diede alla luce un bambino, che poco dopo abbandonò vicino al tempio di Giove. In seguito, alcune fanciulle che andavano a raccogliere l’acqua lo trovarono accanto al fuoco; per questo il bambino fu considerato figlio di Vulcano. Inoltre, venne chiamato Ceculo (Piccolo cieco) perché a causa del fumo i suoi occhi erano più piccoli del normale1.

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Morte di Tullo Ostilio

Sotto il regno di Tullo Ostilio, a Roma, scoppia una grave pestilenza, che finisce per colpire lo stesso sovrano. Così proprio lui, che aveva sempre ritenuto indegne di un re le pratiche religiose, d’un tratto divenne schiavo di ogni genere di superstizione. Tutti sapevano che per ottenere la salvezza di quei corpi malati era opportuno invocare l’aiuto degli dèi seguendo le prescrizioni di Numa. E così il re in persona si mise a consultare i libri di Numa, alla ricerca disperata di un rimedio sicuro al suo male. Dopo attenta lettura, trovò in quei libri la descrizione dei sacrifici in onore di Giove Elicio e si ritirò in solitudine nella reggia sul Celio, per compiere quel rito da solo, di nascosto da tutti. Ma stava sbagliando ogni cosa: non solo celebrava per se stesso riti pattuiti da Giove e Numa per il bene collettivo, ma non rispettava neppure il Coretto svolgimento della pratica rituale. E allora Giove, irato per tanta tracotanza ed esasperato dall’irregolarità del rito, fulminò il re e lo incenerì insieme alla sua casa1.

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Morte collettiva dei Fabi

La guerra contro Veio si trascinava ormai da tre anni, finché non impugnarono le armi le mani di una sola famiglia pronta a sacrificarsi per il bene di Roma. Tutto ebbe inizio quando nell’aula del senato Cesone Fabio avanzò una singolare richiesta: «Delle altre guerre – diceva – fatevi carico voi, questa la vogliamo condurre noi, come una questione di famiglia, a nostre spese»1. La richiesta fu accolta e i circa trecento Fabi, fra i plausi del popolo intero, partirono, minacciando la rovina del popolo veiente con le forze di una sola famiglia2. La battaglia ebbe luogo presso il fiume Cremera, dove il loro valore brillò, ma fu superato con l’inganno: che potevano fare pochi valorosi di fronte a un agguato di tante migliaia di nemici? Come un solo giorno aveva visto partire tutti i Fabi, così un solo giorno li vide perire. Eppure, gli stessi dèi avevano provveduto affinché la stirpe non si estinguesse: sopravviveva un bambino, rimasto in città perché un giorno potesse nascere Massimo il Temporeggiatore3.

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Orazi e Curiazi

Tullo Ostilio e il re di Alba Longa, Mezio Fufezio, decidono di risolvere il conflitto fra le loro città facendo scontrare un numero circoscritto di uomini. Come per un segno del fato, a Roma e ad Alba sono presenti due coppie di trigemini e Fufezio propone di scegliere tali giovani quali campioni dei rispettivi eserciti. I gemelli sono fra loro cugini, in quanto figli di due sorelle, le Sicinie, a loro volta gemelle fra loro e sposate dal loro padre l’una al romano Orazio, l’altra all’albano Curiazio. Inoltre, i sei ragazzi sono cresciuti a stretto contatto, al punto da chiamarsi tra loro “fratelli”, e la sorella degli Orazi è promessa sposa a un Curiazio. Nonostante ciò, i campioni delle due città sono disponibili ad affrontare il duello. Il combattimento ha luogo alla presenza dei rispettivi eserciti; dopo che due degli Orazi sono già caduti, il fratello superstite riesce a uccidere tutti i nemici, affrontandoli uno alla volta, e torna a Roma carico delle spoglie sottratte ai Curiazi. In mezzo alla folla che gli corre incontro c’è anche la sorella, che riconosce fra le spoglie il mantello da lei tessuto per il promesso sposo; Orazia scoppia allora in lacrime, rimproverando al fratello di aver ucciso degli stretti congiunti, ai quali si rivolgeva con l’appellativo di “fratelli”. Per tutta risposta, Orazio trafigge con la spada la ragazza, colpevole di piangere un nemico e di avergli rifiutato il "bacio" rituale che deve a suo fratello. Ha luogo allora un processo, nel corso del quale il giovane Orazio si appella al popolo e viene assolto, nonostante la gravità del suo crimine, in nome dell’eroismo mostrato in guerra. Tuttavia, per placare l’ira degli dèi, custodi dei legami parentali, vengono consacrati due altari, uno dedicato a Giunone Sororia, protettrice delle sorelle, e uno a Giano Curiazio. Il giovane Orazio, poi, viene fatto passare in segno di espiazione sotto un giogo, il Tigillum sororium o “Trave della sorella”, ancora visibile nel tardo I secolo a.C.; nella stessa area sorgeva anche la colonna eretta per conservare le spoglie dei Curiazi, la cosiddetta pila Horatia12.

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Tarpea

Lo sdegno dovuto al ratto delle loro donne induce gli abitanti di tre città della Sabina (Cenina, Crustumerio e Antemne) a imbracciare le armi contro Roma. Dopo che le loro spedizioni si rivelano fallimentari, un più vasto conflitto è scatenato da Tito Tazio, re della città di Curi e figura egemone presso tutti i Sabini. A differenza dei suoi predecessori, Tazio ricorre a un piano lucido, spinto fino all’inganno. La guerra ha inizio con un curioso colpo di mano: Tarpea, la giovane figlia del custode del Campidoglio, Spurio Tarpeo, si reca a prendere dell’acqua per una cerimonia sacra e in questa occasione si lascia corrompere dall’oro del nemico. La donna consente ai Sabini di impossessarsi della rocca, ma una volta ottenuto l’ambito accesso, questi la uccidono brutalmente, lanciandole addosso i loro pesanti scudi fino a soffocarla: prima di spalancare proditoriamente le porte della rocca, Tarpea aveva infatti chiesto come contraccambio ciò che i Sabini portavano al braccio sinistro. La giovane avrebbe inteso riferirsi in questo modo ai bracciali d’oro e agli anelli preziosi che i Sabini usavano indossare; ma poiché anche gli scudi venivano tradizionalmente sostenuti col braccio sinistro, la richiesta di Tarpea poté agevolmente prestarsi a un macabro e deliberato malinteso. Non mancano peraltro versioni del racconto secondo cui, lungi dall’essere una traditrice, Tarpea avrebbe tentato di far cadere in trappola i nemici in forza del suo ambiguo riferimento alla mano sinistra: ella avrebbe realmente mirato alla consegna degli scudi dopo l’ingresso in Campidoglio, fidando nell’imminente arrivo delle truppe romane sui Sabini disarmati, ma Tazio e i suoi avrebbero colto l’intenzione fraudolenta e optato per un sanguinario “contro-dono”12.

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Integrazione tra Romani e Sabini

Una volta conquistato il Campidoglio, i Sabini devono far fronte al rinnovato impeto delle truppe romane, ansiose di vendetta. Dalla mischia emergono due valorose figure: Mezio Curzio per i Sabini e Osto Ostilio per i Romani. Quest’ultimo però cade sul campo, gettando i compagni nello sconforto; Romolo supplica allora Giove di arrestare la fuga e salvare la città, promettendo in cambio la costruzione di un tempio al dio come “Statore”. I Romani riprendono a combattere e riescono a disarcionare dal cavallo Mezio Curzio; questi precipita quindi in una palude, nell’area che più tardi sarebbe stata occupata dal Foro. A ricordo dell’evento, tale parte del Foro sarà denominata Lacus Curtius. Sostenuto dalle acclamazioni dei Sabini, comunque, Mezio si tira fuori dall’acquitrino e la battaglia riprende nella valle fra Campidoglio e Palatino. Sono le donne sabine che a questo punto imprimono una svolta alle vicende, gettandosi in mezzo alle schiere e supplicando entrambe le parti di porre termine a quella che è divenuta ormai una guerra civile. Gli uomini in lotta, commossi dall’accorato appello, acconsentono alla pace e decidono di fondere le due città. I Sabini si trasferiscono a Roma, dove Tazio diviene re al pari di Romolo. La diarchia così inaugurata prosegue all’insegna della piena concordia, finché un sinistro incidente non spezza la vita del coreggente sabino. Alcuni parenti di Tazio usano violenza contro gli ambasciatori dei Laurentini, e allorché questi domandano giustizia, Tazio non ha la forza di opporsi alle suppliche dei suoi. Perciò, quando il re sabino si reca a Lavinio allo scopo di celebrare un sacrificio, i Laurentini si vendicano uccidendolo12.

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Morte di Tito Tazio: empietà e contaminazione

È infatti a Lavinio che si consuma un altro gesto di empietà e violenza, teso a pareggiare il debito di sangue: Tazio è assassinato mentre officia un sacrificio, in un momento in cui la prassi religiosa esige il massimo della purezza e dello scrupolo. Accade invece che il re sabino muoia «trafitto presso gli altari dai coltelli sacrificali e dagli spiedi utilizzati per trapassare i buoi»1. Il sangue degli animali consacrati, offerto per la città e per gli dèi, è orribilmente mescolato a quello del celebrante, al culmine di una faida fra popoli consanguinei. Al delitto fanno seguito una serie di eventi infausti: un’inattesa pestilenza si abbatte sugli abitanti di Roma e Lavinio, la terra e gli animali domestici divengono sterili e una pioggia di sangue si rovescia sui luoghi. Né i Romani né i Laurentini hanno dubbi sul fatto che l’ira divina sia stata provocata dai due atti di empietà rimasti inespiati: l’omicidio degli ambasciatori e il linciaggio di Tazio. Dopo la morte di quest’ultimo, infatti, Romolo si era rifiutato di punire i colpevoli, asserendo che il primo fatto di sangue era stato cancellato dal secondo. Nessun effetto sortisce comunque la sollecitudine religiosa con cui Romolo dà sepoltura al collega sull’Aventino, istituendo presso la sua tomba un culto funebre che prevede l’offerta annuale di libagioni a spese della comunità, identiche a quelle che si versavano sul Campidoglio per l’ambigua eroina Tarpea. Il re deve dunque rassegnarsi a fare piena giustizia: vengono puniti sia gli aggressori degli ambasciatori laurentini sia gli assassini di Tazio e le due città sono purificate attraverso apposite cerimonie lustrali. Anche questi riti entrarono nell’uso tradizionale ed ebbero come sfondo, nei secoli successivi, una non meglio precisata Porta Ferentina2.

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