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Miti

Morte di Antigone

La figlia di Edipo ha violato la legge che vieta a ogni cittadino, sotto pena di essere lapidato, di prestare gli onori funebri a Polinice, caduto in battaglia dopo aver marciato contro Tebe. Il divieto è imposto dal re tebano, lo zio Creonte. Ma Antigone di nascosto getta simbolicamente sul cadavere del fratello alcune manciate di terra; colta in flagrante, viene catturata ed è trascinata al cospetto di Creonte. Il sovrano ordina che la nipote sia murata viva in una stanza scavata nella roccia, dove morirà o sopravvivrà senza mai più vedere la luce del sole: le mani di Creonte saranno pure nei riguardi della ragazza. Alla fine il re muta consiglio, decidendo di seppellire Polinice e liberare Antigone, ma questa si è ormai impiccata nella cella, appendendosi per il collo a un laccio di lino1. In altre versioni, Antigone riesce a sottrarre il cadavere alle guardie e lo getta sulla pira destinata a Eteocle, l’altro fratello. Creonte, dopo aver scoperto la violazione di Antigone, la dà da uccidere al figlio Emone, sposo promesso della ragazza, ma questi disubbidisce per pietà e l’eroina viene messa in salvo2. Secondo un'altra tradizione Antigone, insieme alla sorella Ismene, viene bruciata viva, nel tempio di Era, da Laodamante figlio di Eteocle3.

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Suicidio di Erigone

Dioniso ha insegnato a Icario la coltivazione della vite. Quando l’uomo viene ucciso da un gruppo di contadini ubriachi, sua figlia Erigone si appende a un albero collocato nel luogo dove è seppellito il padre. Insorge allora un’epidemia di impiccagioni femminili e l’oracolo di Delfi prescrive di punire gli assassini di Icario e di istituire la festa dell’Aiora, durante la quale le giovani Ateniesi si dondolano su altalene appese ai rami degli alberi1.

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Il coraggio di Carite

Fra i pretendenti della bellissima Carite vi è Trasillo, un giovane di nobile famiglia, ma gran frequentatore di osterie e di donnacce. Rifiutato a causa dei suoi costumi riprovevoli, il giovane pensa di vendicarsi e durante una battuta di caccia uccide lo sposo di Carite, dopo aver architettato il delitto affinché sembri un incidente. Un giorno però, avvertita in sogno dall’anima dello sfortunato sposo, Carite decide di punire l’infame assassino: lo invita a presentarsi furtivamente di notte nella sua stanza e gli fa bere un potente sonnifero. Poi, con maschia ferocia si lancia contro l’assassino sepolto dal sonno e trafigge gli occhi di Trasillo con uno spillone. Infine, afferra la spada dello sposo e sul suo sepolcro si squarcia il petto1.

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Il coraggio di Clelia

Tra gli ostaggi di Porsenna vi erano anche ragazze di nobili famiglie romane. Una di queste, Clelia, ebbe l'ardire di scappare, insieme alle sue compagne, attraversando a nuoto il Tevere, mentre i nemici le scagliavano contro una fitta pioggia di dardi. Porsenna in un primo momento chiese la restituzione di Clelia, poi iniziò a provare ammirazione per il coraggio della fanciulla e fece sapere ai Romani che, se avessero consegnato l’ostaggio, lo avrebbe rimandato illeso. In segno di rispetto della parola data i Romani cedettero Clelia a Porsenna, che non solo ne lodò il comportamento, ma le concesse la metà degli ostaggi. Anche i Romani apprezzarono l’impresa di Clelia e premiarono il suo coraggio con un nuovo genere di onore, una statua equestre sulla via Sacra1.

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Vecchiaia al femminile: il sogno di Turno

Mentre Turno dorme, gli appare in sogno la Furia Aletto con l’aspetto di una vecchia: ha i capelli bianchi e la fronte solcata da rughe ripugnanti. Si presenta nelle sembianze di Calibe, l’anziana sacerdotessa di Giunone, per aizzare con l’inganno il giovane alla guerra. Ma Turno respinge il tentativo irridendo la vecchia con parole sprezzanti: «La tua vecchiaia spossata e incapace di proferire il vero, ti illude di profetare sulle guerre dei re»1.

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Anna Perenna sfama la plebe

Quando la plebe si rifugia sul monte Sacro e il cibo inizia a scarseggiare, una vecchia di nome Anna, povera ma di grande alacrità, si mette a preparare con mano tremante delle focacce rustiche che, ogni mattino, distribuisce fumanti al popolo. La plebe è così riconoscente alla sua generosità, che, ritornata la pace, le dedicò una statua in ricordo dell’aiuto che quella aveva portato loro1.

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Anna Perenna e Marte

Grazie alla generosità con cui aveva portato aiuto alla plebe, Anna è trasformata in una dea. Marte, che freme d’amore per Minerva, chiede all’anziana il suo aiuto come ruffiana: di sicuro avrebbe accettato, pensava il dio; era pur sempre una vecchia e alle vecchie si addice tale ruolo. In effetti Anna non rifiuta, ma si burla del dio travestendosi da Minerva: è proprio in ricordo di questa burla che nella festa di Anna Perenna le fanciulle intonano canti osceni1.

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La vecchia mezzana

A un mugnaio era toccata in sorte la peggiore delle mogli, che tradiva il marito e attirava a sé con l’inganno tutti gli uomini. Ogni giorno era con lei una vecchia che faceva la ruffiana delle sue tresche e portava i messaggi agli amanti. Un giorno la vecchia, insoddisfatta del nuovo amante che la donna aveva per le mani, la ammonì: «Te lo avevo detto io che questo amante è pigro e pauroso! Basta che il tuo noioso marito aggrotti le sopracciglia, che lui si mette a tremare. Quanto è meglio Filesitero! Lui sì che è giovane, bello, infaticabile e capace di eludere le inutili precauzioni dei mariti». A questo punto la vecchia si mette a raccontare di come una volta Filesitero era riuscito con una brillante trovata a spegnere del tutto i sospetti di un marito che si credeva astuto e che invece finì per essere tradito e ingannato. Al sentire il racconto la moglie del mugnaio provò invidia per quella donna fortunata che aveva potuto godere di un amante così sicuro del fatto suo e si commiserava: «Io, poveretta, ne ho beccato uno che ha paura persino del rumore della macina!». Ma la vecchia ruffiana la rassicurò: «Tranquilla! Te lo convincerò io questo ragazzo così spigliato e te lo farò venire qui più veloce che per un mandato di comparizione!». E infatti così avvenne1.

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Vecchiaia della Sibilla

Mentre guida Enea attraverso l’Averno, la Sibilla racconta la sua storia. Febo, innamoratosi di lei, le offriva in cambio del suo amore qualunque cosa desiderasse. Allora la Sibilla raccolse un mucchio di polvere e chiese tanti anni quanti erano i granelli in quella manciata. Una dimenticanza, però, le fu fatale: non ricordò di precisare che quegli anni dovevano essere di gioventù. Di certo Febo le avrebbe concesso una perenne giovinezza, se solo la Sibilla avesse accettato l’amore che invece rifiutò. «E ormai – continuò – l’età più felice mi ha voltato le spalle e la gravosa vecchiaia avanza col suo passo tremante. Ho vissuto sette secoli e ancora mi attendono trecento estati e trecento autunni. Verrà il momento in cui il mio corpo si rattrappirà e la vecchiaia consumerà le mie membra riducendole a un mucchietto d’ossa. Allora chiunque dubiterà che io sia piaciuta a un dio»1.

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